Com’è riaprire una pizzeria a Milano (e non solo) dopo il lockdown?

Dopo la chiusura, ecco come sta andando la riapertura delle pizzerie Berberè. Per cucchiaio.it ho fatto il punto con Matteo Aloe, l'imprenditore, che con il fratello Salvatore, ha creato il format nato 10 anni fa.




"Non dipende solo da noi, chissà cosa succederà, insomma è una grande incognita, anche se abbiamo riaperto le nostre dodici pizzerie, presenti in 6 città italiane", ci dice al telefono Matteo Aloe, dal locale di Bologna, uno dei primi che l'imprenditore calabrese, assieme al fratello, ha fondato sotto l'insegna Berberè creata nel 2010. Dalla chiusura imposta dal decreto alla riapertura concessa il 18 di maggio, Matteo Aloe ci ha raccontato la ripresa, partendo proprio da Milano, il capoluogo della regione più colpita dalla pandemia".
Matteo, come avete affrontato la riapertura delle quattro pizzerie di Milano?
"A Milano proprio a fine febbraio 2020 avevamo inaugurato il nostro quarto locale in città, alle Colonne di San Lorenzo (dopo i già rodati Berberè in Isola aperto nel 2016, quello in Centrale e zona Navigli). Vista la minor affluenza e la paura, diffusa anche nel nostro personale, abbiamo chiuso tutti i nostri locali in Italia l'8 marzo per tre settimane. Dopo circa un mese dalla chiusura totale abbiamo ripreso con il delivery (la consegna a domicilio) il 3 aprile, ricevendo una buona risposta dalla clientela con cui abbiamo mantenuto un contatto, seppur digitale. Siamo poi ripartiti appena consentito con l'asporto. Il 18 maggio abbiamo riaperto a Milano le pizzerie di Navigli e Colonne. L'1 giugno anche quelle di Centrale e Isola, che nel frattempo abbiamo ristrutturato".


Nella pratica cos'è cambiato nella gestione degli spazi e delle misure sanitarie obbligatorie?

"Per noi è importante che le persone si sentano al sicuro e abbiano voglia di tornare a mangiare fuori. Abbiamo rispettato le indicazioni del Governo in termini di  distanziamento sociale e misura della temperatura (quest'ultima obbligatoria solo a Milano), igienizzazione degli ambienti (che veniva fatta anche prima), registrazione dei dati dei clienti (uno per tavolo). Quindi, abbiamo per prima cosa eliminato i menu, sostituendoli con delle tovagliette in carta riciclata monouso, abbiamo formato il personale che indossa la mascherina obbligatoria e per ogni tavolo chiediamo, come richiesto dall'ultimo decreto, i dati di registrazione (nome, cognome e numero di telefono) per una possibile esigenza di contatto qualora ci fossero casi positivi. Se la prenotazione viene fatta online è tutto automatico".

Avete ridotto i coperti, per mantenere il distanziamento sociale di 1 metro tra persone non congiunte?

"Sì, anche se ogni locale è a sé. La pizzeria sui Navigli è piccola: aveva 50 posti a sedere compresi quelli al bancone e ora sono circa 25. In media i coperti sono diminuiti del 30-40%. Ad esempio, nel locale di Centrale si è passati da 90 a 60. Naturalmente i posti a sedere che affacciavano sulla cucina a vista li abbiamo eliminati. Stiamo però facendo delle modifiche strutturali progettando delle vetrate che terranno separato lo spazio della cucina da quello della sala. Sicuramente non metteremo il plexiglas".


Avete sfruttato lo spazio esterno con dei tavolini o dehor?

"Purtroppo a Milano siamo deficitari di grandi spazi esterni, presenti invece a Firenze e Roma. C'è qualche tavolino anche nei locali di Milano, ma stiamo lavorando per ampliare lo spazio dove possibile".

Quanto è difficile far rispettare le regole?

"I clienti sono restii a lasciare i loro dati, perciò dobbiamo essere noi delicati e bravi a spiegare che non li divulghiamo. E' una precauzione che ci viene richiesta in caso di contagi. In generale, c'è chi è molto rispettoso, c'è invece chi è più menefreghista. Noi cerchiamo sempre di far rispettare le regole".

In termini di consumi le persone come si stanno comportando?

"Lo scontrino medio non è cambiato e i nostri prezzi sono rimasti invariati. Le pizze più richieste rimangono Margherita e Bufala (circa il 40% degli ordini). Piacciono molto anche le cosiddette Stagionali. Con la riapertura c'è stata subito una risposta positiva dalla clientela del quartiere: un bel sostegno psicologico che ci è servito c'è stato a Milano, soprattutto in Isola e Navigli, dove abbiamo molti clienti residenti nella zona, mentre i locali di Centrale e Colonne hanno un pubblico più di passaggio e di lavoratori. Notiamo che man mano aumentano le prenotazioni di tavoli più numerosi, di famiglie o amici, mentre i primissimi giorni vedevamo più coppie e tavoli da due. Pian piano c'è una ripresa della socialità".

Come sta andando a Milano, rispetto a prima?

"Ci sono in generale meno tavoli, ma purtroppo non ho il problema di averli tutti pieni: soprattutto nelle pizzerie più grandi, come quella in Centrale, dove lavoravamo molto in pausa pranzo con gli uffici della zona, soffriamo molto lo smartworking. La clientela si è azzerata e non abbiamo problema di distanze, anzi. Stiamo monitorando la situazione a Milano, a distanza di circa 10 giorni dall'apertura di tutte le pizzerie in città: i weekend sono abbastanza movimentati e questo ci fa avere fiducia verso il resto della settimana che invece è fermo. Tutti i locali, tranne quello sui Navigli, sono aperti a pranzo e cena, così come è sempre stato. Ci sono ancora tante incognite: è una situazione che richiede tempo".


Incassi in termini economici rispetto al 2019?

"E' ancora prematuro dirlo ma per ora siamo abbastanza contenti sulla base delle previsioni che avevamo fatto. A fronte di una riduzione del 30-40% dei coperti a diposizione registriamo un - 50% dell'incasso rispetto lo scorso anno. In questa stima teniamo conto anche del delivery che continua a dare una buona risposta, quindi di fatto le persone che entrano nelle nostre pizzerie sono meno del 50%. Diciamo che se c'è una crescita settimanale del 10%, come ci auguriamo, il nostro obiettivo è arrivare a dicembre all'80% dell'incasso che facevamo nei mesi pre Covid. Almeno, per limitare i danni".


Quanto e come è cambiata la situazione del personale che lavora nelle pizzerie Berberè?

"Durante il periodo  di chiusura siamo ricorsi alla cassa integrazione, che abbiamo anticipato ai nostri oltre 200 dipendenti, che hanno apprezzato. Abbiamo cercato di fare il massimo. Non è stato facile, non avendo più liquidità. Abbiamo fatto degli accordi con i nostri fornitori per poter rateizzare i pagamenti e anticipare gli stipendi. E' stato il risultato di un grande lavoro amministrativo. Il personale ha dimostrato, tranne in alcuni casi particolari, la voglia di tornare al lavoro. Prima con il delivery e poi con la riapertura ci siamo organizzati con una rotazione dei dipendenti, alternando ore lavorate e ore in cassa integrazione ed eventuali ferie. Ad oggi, non c'è stata alcuna riduzione del nostro personale. La coperta è comunque corta e speriamo di tornare alla normalità il prima possibile".


Matteo, hai notato delle differenze post apertura tra le vostre pizzerie di Milano e quelle presenti nelle altre città italiane?

"Molto dipende dalla fisionomia del locale, dalla zona insomma. Le città che stanno rispondendo 
meglio sono Firenze e Roma, probabilmente perché meno colpite dal Covid e perché qui abbiamo  ampi dehor, che invogliano le persone ad uscire. La pizzeria di Bologna soffre più di Milano, in quanto si trova in zona universitaria che attualmente, con le università chiuse, è ancora poco frequentata. A Milano sentiamo la mancanza dei lavoratori degli uffici, come già detto. A Verona mancano i turisti nella centrale piazza delle Erbe. In generale, le città più a sud rispondono meglio di quelle al nord".


Fuori dai confini nazionali, Berberè è presente a Londra con tre locali sotto l'insegna Radio Alice. Com'è la situazione inglese?

"Londra ha chiuso due settimane dopo rispetto all'Italia e il lockdown continua fino al 4 luglio. I nostri ristoranti sono ancora chiusi e la riapertura prevederà probabilmente regole simili a quelle 
italiane. Nulla è ancora ufficiale. Rispetto all'Italia? C'è più collaborazione da parte del Governo 
inglese: ad esempio, è stata fatta una moratoria che ha vietato gli sfratti per tre mesi. La grossa differenza? In Inghilterra è stata introdotta una cassa integrazione straordinaria che lo Stato rimborsa al datore di lavoro che anticipa gli stipendi, mentre in Italia noi imprenditori che abbiamo anticipato le mensilità ai dipendenti non avremo soldi indietro ma degli sconti sui contributi futuri. Insomma, a Londra non c'è nessuno che aspetta da tre mesi la cassa, la burocrazia inglese è molto più snella".


Di Maria Teresa Melodia 
mariateresa.melodia@gmail.com

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